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Cultura e Spettacolo

15/05/2014

Intervista a Sergio Zavoli

A Fiorano per il ciclo incontri con l’autore del Maggio Fioranese

Maggio Fioranese che parte con il botto, Sergio Zavoli è infatti il primo e graditissimo ospite della rassegna “incontri con l’autore”. L’illustre giornalista presenta a Fiorano il suo ultimo libro “Il ragazzo che fui” e si apre alla platea raccontando del suo lavoro, della sua vita e delle sue passioni.


L’ultima fatica letteraria di Sergio Zavoli


L’incontro con il pubblico che affolla il teatro Astoria vede Zavoli parlare subito del suo ultimo lavoro pubblicato, “Il ragazzo che fui”. Riceve molti complimenti per il titolo e ne è lusingato dato che il titolo in un libro è fondamentale così come lo è la copertina, ma svela che non ha alcun merito visto che lo ha scritto prendendo una citazione di Bernanos: “Ho visto tante morti nella mia vita ma il più morto di tutti è il ragazzo che io fui.”

Gli è parsa una bella frase per il libro che parla del farsi di un ragazzo in un uomo.

Lo ha scritto per un piccolo ragazzino che è entrato a far parte della sua vita, suo nipote Andrea, sul quale ha puntato tutte le sue attese e speranze.

Il libro parla appunto di memoria, la sua. La memoria è un bene da coltivare, è nella vita di ciascuno di noi, è nella collettività, è nella società.

Ha sentito la necessità di lasciare un segno a qualcun altro per poter far sapere ciò che è stato, perchè il non sapere più da dove veniamo, chi siamo stati, che scelte abbiamo fatto sarebbe come morire. Inizia il racconto con una storia personale: lui da piccino ricopiava i segni dei caratteri del Corriere della Sera che comprava suo papà senza capirne il significato, però era bravo. Un giorno senti suo padre che diceva alla mamma “Vedrai, questo figlio finirà nei giornali”. Lui si allarmò pensando che quando si dice “è finito sui giornali” in genere succede per una cattiva azione, ma quella sorta di profezia significò per Zavoli, una volta adulto, un avvertimento a stare attenti a quello che si scrive come forma di responsabilità.


Il giornalismo e la cultura secondo Zavoli


Ci confessa che la sua è di una generazione nata con i libri e che un giornalista che si rispetti, stanco di scrivere pezzi per un quotidiano, prima o poi si ritrova a scrivere libri.

Questo accade in un tempo sfavorevole con il trionfo del web, teme fortemente dell’uso che si farà della parola, dell’italiano, ma non addossa la colpa al sistema mediatico.

Dice che tutto comincia dalla scuola, che dovrebbe insegnare l’osservanza di alcune regolette che dovrebbero essere rispettate e cita Flaiano con una massima che dovrebbe far ridere ma purtroppo è inquietante: “Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola” e questo la dice lunga sulla reputazione che si è guadagnata la scuola che è uno strumento fondamentale per la crescita di un paese.

Si fa un gran parlare di economia e finanza dimenticandosi delle questioni civili, morali ed etiche che sono cruciali per uscire da uno stato di malattia latente che ha colpito il paese.

Zavoli all’età di novanta anni dice che bisogna ripristinare l’idea che vivere è un’impresa, non è un gioco, vivere è impegnarsi per qualche cosa, vivere vuole dire saper accettare i confronti ed  essere consci del fatto che da soli non si va lontano.

Sapere che la vita riserva dolori, che ci sono milioni di persone che non hanno potuto ricevere cultura e civiltà e che queste persone hanno bisogno di noi.

Dare un senso alla parola globalizzazione dovrebbe dire che siamo tutti uguali, altrimenti prevale il pregiudizio che non valga più la pena di preoccuparsi di chi non ha potuto avere le basi culturali per potersi allineare.

Bisogna incominciare dal poco ripristinando il valore della scrittura con un libro, il senso culturale e sociale restituendo la correttezza della parola ai giovani che l’hanno perduta vivendo di emoticon, piccoli segni dediti al criterio della velocità e della comodità.

I ragazzi si capiscono con uno sguardo, un gesto che però va perso nel tempo. Lo Stato deve quindi considerare la necessità di aiutare l’editoria per non perdere le buone cose che la conoscenza di un buon libro ci può fornire, anche per avere destino e futuro.


Zavoli poeta, un amore tardivo per il gusto del bello e della parola


Zavoli giudica la poesia differentemente rispetto ad un articolo di giornale o ad un’inchiesta e scrive poesie per il gusto delle parole, per ricercare la parola che in quel sonetto esiste solo per dire quella cosa senza essere travisata.

E’ la ricerca del bello, della pace e della serenità.

La poesia per Zavoli è un testo unico, è una realtà che non aveva vita fino a quando il poeta non la prende incastonandola artisticamente nel bello della lirica.

Afferma che in quest’arte ritrova il rispetto della parola e della metafora.

La poesia che si nutre di ridondanze senza arrivare alla testa e al cuore non è un buon lavoro. La poesia è castità e nudità, ecco perché il testo per l’autore è una continua sottrazione.

C’è bisogno di rigore, Zavoli scrive per sottrazione, esprime un concetto con una prima stesura abbondante e rigogliosa, poi assottiglia le frasi rendendole sempre più brevi andando alla ricerca dell’essenza. Dice ancora: “Non si esce mai indenni dopo la lettura di una poesia mentre a volte può capitare di uscire annoiati dalla lettura di qualche pezzo giornalistico.”


Zavoli al gr1


Il giornalista continua nei racconti della sua vita condividendo con il pubblico alcune tra le sue tante esperienze lavorative. Si sofferma a raccontare di quando gli fu affidato il gr1 narrando di una sociologia aziendale un po’ bizzarra che aveva stabilito che le redazioni si dovessero formare sulla base dell’ideologia del direttore, per cui se il direttore era comunista si dovevano avere tutti i giornalisti comunisti, e lui che era socialista si trovò a collaborare con un’intera redazione socialista. Alla prima riunione disse: “Guardate che qui c’è un equivoco, non siamo qui per fare L’Avanti, noi siamo qui per fare un giornale del servizio pubblico che deve misurarsi con le idee degli altri”. Gli mancava un liberale, gli dissero che ce ne era uno in via Teulada, lo avevano messo in un sottoscala, non contava nulla e si chiamava Aldo Bello. Zavoli andò personalmente a trovarlo, lo ricorda un liberale tutto di un pezzo, leale, franco ed educato. Bello vide Zavoli, scattò sull’attenti appena lo vide e lui disse: “Io ho bisogno di te”.

Bello per poco non svenne dalla gioia, lo seguì e divenne un grande giornalista.

Questo per dire che i giornalisti devono sempre misurarsi con il problema del pluralismo che vuol dire far conoscere le idee di tutti.

Dopo quattro anni Zavoli divenne presidente della RAI e al suo primo consiglio di amministrazione abolì il criterio di scelta dei giornalisti fatto solo per compiacere il direttore. Volle che in ogni redazione ci fossero le idee politiche di tutti tranne che degli appassionati estremisti violenti sia con le parole che con i gesti.

Zavoli è per la libertà di pensiero, di tutti pensieri e di tutte le bandiere, ma la libertà deve essere ordinata e deve non accettare i provocatori che si infiltrano in mezzo ai gruppi convenuti dalla democrazia seminando violenza e quindi uccidendo la democrazia.


Le inchieste ad inizio della luminosa carriera giornalistica


Ricorda l’inizio della sua carriera con l’inchiesta ”Nascita di una dittatura”. Inizia con l’immagine di Rachele Mussolini e una frase della donna: “Se Mussolini avesse accettato di fare il giornalista in America sarebbe andata meglio per tutti, anche per lui”. Ricorda la caduta del fascismo e rimembra suo padre che diceva: “Io non sono fascista, io sono mussoliniano”. E cita la parte buona del fascismo per dire che un uomo non può essere fazioso neppure quando ne avrebbe il diritto, men che meno lo può essere un giornalista.

Ricorda ancora che intervistò i giovani terroristi tra cui Roberto Russo, laureto all’università di Pisa in matematica, a cui chiese perché a un certo momento avesse lasciato i suoi compagni e se ne fosse andato, aggiungendo che se fosse stato all’interno di un gruppo regolare si sarebbe chiamata diserzione. Disse Zavoli: ”Voi terroristi siete una rivoluzione senza popolo e la rivoluzione ha ancora un connotato nobile se sostenuto dal popolo in senso democratico.”

La risposta è stata: “Me ne sono andato perché non avevo più le parole, non sapevo più per cosa combattevo, non sapevo più come dirmelo. Lei non ci crederà ma la sera andavo a vedere il telegiornale per sentire cosa dicevano di noi e per capire quello che facevamo.”

Ecco l’importanza della scrittura, per sapere quello che siamo stati.


Inchiesta Credere e non credere


Zavoli, stanco dei soliti e continui varietà in prima serata RAI, propose di realizzare un’inchiesta sul credere e non credere. Tutti i dirigenti subito non ebbero il coraggio di dargli del pazzo e gli dissero che si sarebbe potuto fare per la terza rete in seconda serata. Lui si impuntò spiegando le sue ragioni sul perché lo volesse in prima serata su RAI uno e senza interruzioni pubblicitarie.

Riuscì a realizzare il suo progetto in sei puntate che ebbero un successo enorme, per la prima volta gli spettatori, compresi i bambini, potevano godere di uno spettacolo che non era il solito intrattenimento, ma li induceva a pensare a questioni serie, alla propria interiorità.


Pensieri di vita


Nel continuo flusso di informazioni, racconti e ricordi viene il momento di parlare dell’uomo e del suo vivere. Secondo Zavoli non si può vivere senza percepire la presenza dell’altro, avere confidenza, interesse e solidarietà  e la complicità per non essere più una persona, divenire un gruppo , un popolo  e uno stato. Per l’autore la politica è trovare soluzioni assieme per poter rivalutare la politica in un momento storico come quello in cui viviamo. Ricorda Prezzolini di destra e Amendola di sinistra, due uomini lontani tra loro ma che dissero la stessa cosa: questa Italia non mi piace.

Elogia poi la parola comunità che vuole dire mettere in comune, cioè riconoscersi negli altri e tutto questo è democrazia, cioè convivenza e rispetto.


L’ideologia ha trasformato l’idea in sudditanza


L’autore è sempre per dare voce a tutti tranne agli estremisti che spesso sfociano in gesti di violenza gratuita sfasciando vetrine, dando fuoco alle auto, creando guerriglia urbana. Per dirla con parole sue “è l’imbecillità che si appassiona” alla politica. Bisogna stare attenti agli estremisti, serve libertà ma all’interno della libertà ci deve essere un ordine, una disciplina e una regola, non si posso accettare i provocatori che si infiltrano sollevando così il sospetto che la democrazia non sia in grado di mantenere un ordine costituito in cui il paese si possa riconoscere.


La comunicazione di oggi


Chi si fa mediatore tra i fatti e l’opinione pubblica ha una grande responsabilità perché è un maestro di vita che deve indurre il lettore a farsi consapevole del fatto che la realtà è molto più complessa di quanto non si pensi e che per sapersi difendere bisogna conoscere questo e quello, ma oggi non accade più perchè la velocità nella comunicazione esercita il potere sul mondo e dovremmo essere in grado di trasformare il nostro giudizio su una cosa appena giudicata perché tutto quello che stiamo per fare è già vecchio rispetto a ciò che dovremmo fare. La velocità ha coinvolto tutti, dagli intellettuali alla gente semplice senza che ce ne accorgessimo. Paragona la velocità ad uno tzunami che fa piazza pulita di tutta l’umanità che non sa reggere questi fenomeni, che non ha tempo di soffermarsi e verificare la veridicità e le opinioni della notizie. Oggi la comunicazione conta di più che la stessa economia e non vi è dubbio che la responsabilità civile del giornalista è alta perché deve sapere che da ciò che scrive ne derivano molte scelte, ecco quindi che vi è la necessità di verifica e riscontro delle parole scritte per avere la certezza di lavorare per il meglio e non solo per compiacere. I giornalisti devono sentirsi responsabili perché una notizia può far crescere nel bene come nel male.


Consigli per un giornalismo d’altri tempi


Non potevamo che chiudere l’intervista chiedendo consigli su come continuare l’attività di giornalista e il grande autore ci ha sorpreso dicendo di non farsi troppe illusioni, di non farsi affascinare troppo dal giornalismo, poi ha citato un suo grande collega purtroppo scomparso, Enzo Biagi, suggerendo un segreto per essere bravi giornalisti: bisogna avere buona salute, essere molto curiosi e aver voglia di scarpinare, cioè avere voglia di darsi da fare essendo disponibili ad andare e tornare in fretta per redigere l’articolo e subito buttarsi a capofitto su altri pezzi che possono essere di tutt’altra natura rispetto al precedente, quindi essere molto duttili e disponibili.

Afferma che l’imparzialità è fondamentale non solo per i giornalisti, poi ci pensa un attimo e si convince del fatto che in modo particolare ai mediatori tra i fatti e l’opinione pubblica si chiede di essere puntuali nella ricerca del vero o del verosimile. Se al vero non è possibile attingere o un giornalista ha pregiudizi è bene che rinunci a fare questo mestiere.

Chiude dicendo che il nostro paese si è un poco ammalato a causa della perdita dei buoni valori abbandonati come fossero ferri vecchi, ma ritiene che l’amore per la cultura ci farà ricredere anche nei confronti dei paesi esteri. Elogia la città di Fiorano che ha il grande merito di valorizzare gli scrittori e i libri, simboli di cultura e libertà e da questo piccoli oggetti pieni di parole forse ci potrà essere una ripartenza.


 

 

 

novembre 2024


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