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TESTO E FOTO DI

Carlo Maria Milazzo

Confidenze a Patong Beach

Patong, isola di Phuket, Thailandia del sud. Una lunga spiaggia color cipria è colonizzata solo da rari gruppi di ombrelloni, consunti e blu. Il mare è trasparente come vetro.

La costa è disseminata di grattacieli, giganti che guardano giù mercati sgangherati di vestiti e frutta, le strade intasate da taxi ciclamino, il brulicante centro commerciale Jung Ceylon. Palme, banani e manghi sono più forti di traffico e cemento: qua e là organizzano oasi verdi.

La notte Patong diventa la capitale mondiale del vizio. Insegne gialle e rosa esplodono sulle porte dei ristoranti, cornici viola corrono intorno alle vetrine dei thai-massage, globose lampade rosse oscillano sui banchi a ferro di cavallo dei bar. In tutti questi locali prostitute minorenni, fasciate da stoffe aderenti che cedono appena su seni e glutei, sorridono fin dove le labbra possono stirarsi. I travestiti hanno corpetti chiassosi, short che snudano le cosce, orecchini pendenti fino alle ascelle e fiori azzurri tra le acconciature. Gli omosex dagli occhi bistrati sculettano nei pantaloni di lino bianco.

 

Il ristorante Pan Yaah guarda il mare delle Andamane: cucina thailandese ma anche qualche spaghetto di vago sapore italico. A mezzanotte tutti hanno finito di mangiare. Chi ha optato per il dessert sessuale si è già ritirato nelle stanze dell'hotel adiacente.

Sul retro del Pan Yaah c'è un muretto che confina con la sabbia. E sul muretto sono seduti un lady boy, una ragazza giraffa e un monaco buddhista.

I lady boy sono i transessuali, operati o no. Come scrive Corrado Ruggeri in Farfalle sul Mekong, “in Thailandia sono l'1% della popolazione. Corpi scolpiti, provocanti, sensuali. Sono, secondo i loro estimatori, come molte donne vorrebbero apparire”.

Il nostro lady boy fa la cameriera al Pan Yaah. Ha i capelli neri raccolti in uno chignon. Gli zigomi sporgono sotto verdi occhi a mandorla. Il naso è diritto come un righello. Le labbra sostengono una dose massiccia di rossetto. Il trans veste una camicia bianca che scivola su seni alti e duri per cadere poi larga e molle. Una minigonna incappuccia solo l'apice delle gambe che sono così lunghe da far invidia ai fenicotteri. Sul muretto il lady boy è seduto nel mezzo. Racconta:

-Mi chiamo Radea, che vuol dire “donna felice”. Sono entrata in sala operatoria a 23 anni ma sul passaporto sono ancora Ananda: in questo paese chi nasce maschio rimane tale anche dopo la variazione di sesso. Per fortuna sono finita sotto le mani di un chirurgo coi fiocchi, in un ospedale pulitissimo. A Bangkok ci sono dei negozi affacciati sulla strada con la scritta Sex Change: paghi duemila dollari, esci dopo tre ore, ma come cavolo sarà stata fatta l'operazione?-

Radea si accende una sigaretta e continua:

-Alla scuola media mi chiamavano kotoi. Potevo andare truccata e coi capelli lunghi. Solo non mi era permesso indossare abiti da donna. A 12 anni ho cominciato a prendere ormoni e non ho ancora smesso. Mio padre non si è mai lamentato delle mie tendenze. Mi diceva: “Cosa dovrei fare? Andare contro la tua felicità?”-

Radea brucia mezza sigaretta con una tirata. Prosegue:

-Alcuni monaci buddhisti hanno sparso la voce che chi nasce kotoi nella vita precedente ha commesso gravi peccati e vive la punizione di rinascere in un corpo sbagliato. Ma io non credo che sia un castigo sentire esplodere dentro la femminilità e l'attrazione per i maschi. Mi percorre un brivido ogni volta che un uomo mi guarda con desiderio, anche se questi uomini eccitati sono sempre meno. Un lady boy invecchia velocemente e le sue scintille erotiche perdono presto lucentezza. Però garantisco che c'è stato un periodo in cui ho avuto grande successo. Ballavo sui tavoli dei night, lavoravo nei go go bar, facevo massaggi con sesso finale. Gli uomini mi pagavno tantissimo-

Radea spegne la sigaretta sotto la scarpa con tacco 7. Confessa:

-Oggi mi piacerebbe stare con un uomo soltanto, che sia intelligente, spiritoso e dolce-

 

 

La ragazza giraffa ha 14 anelli di ottone intorno al collo, quelli inferiori di diametro maggiore. Gli anelli, come ricorda Ruggeri, “pesano 200 grammi l'uno e a forza di stirare il collo lo allungano fino a tre volte più del normale”.

La ragazza cambia le lenzuola e aggiusta i letti nell'alberghetto accanto al ristorante. Ha capelli gonfi in cima alla testa e poi divisi in due matasse nere che si appoggiano sulle spalle. Gli occhi sono tristi, fissi. Il naso è appena schiacciato. Indossa una camiciola rosata a maniche lunghe che però non nascondono altri anelli infilati ai polsi. Calzettoni celesti coprono i piedi inseriti in ciabatte di gomma. Sul muretto la ragazza siede a destra del lady boy. Racconta:

-Mi chiamo Mahia e vengo da un villaggio Paduang al confine con la Birmania. Mia nonna diceva che una volta gli anelli venivano messi al collo solo alle bambine nate nelle notti di luna piena. Poi l'abitudine è stata estesa a tutte le donne. Mio nonno mi favoleggiava invece che i progenitori della mia tribù erano figli del dio del vento e delle femmine di drago. Sarebbe stato per assomigliare ai draghi che le donne Paduang si sarebbero allungate e addobbate il collo. Mia mamma mi diceva che ero fortunata ad avere la bardatura di anelli: se fossi andata nella foresta e una tigre mi avesse azzannato alla gola i denti non sarebbero arrivati alla carne-

Mahia gira con la mano destra gli anelli del polso sinistro. Continua:

-Mi chiederete perché qua, lontano da casa, non mi tolgo gli anelli. Non li levo perché il collo è bruttissimo, senza muscolatura, e le clavicole apparirebbero troppo basse. Solo la notte li tolgo, altrimenti dovrei dormire sempre sulla schiena-

Mahia gira con la mano sinistra gli anelli del polso destro. Dice ancora:

-Il mio villaggio è fatto di palafitte, capanne di bambù sopraelevate su sentieri in salita. Ci si arriva soltanto a piedi oppure a dorso di elefante. I turisti vengono ad ammirare la nostra stranezza e noi vendiano loro sciarpe fatte a mano-

Mahia incrocia le dita. Afferma:

-Io mi sono stancata di una vita senza emozioni. Mi sono stancata di essere una bizzarra attrazione. Mi sono stancata di ragazzi troppo selvaggi. E mi sono detta che a mia figlia non avrei mai messo gli anelli. Per cui ho camminato fino ai paesi con le case in mattoni. In un bar ho incontrato una donna camionista che doveva portare un carico fin quasi in Malesia. Con lei mi sono fatta il viaggio fino a qui-

 

Il monaco buddhista ha la testa rasata, occhi svegli e più grandi della media orientale, la mandibols allungata. L'altezza sfiora il metro e novanta. La tunica arancione gli lascia scoperte le braccia e la spalla destra. Racconta:

-Mi chiamo Thongchai, che è il nome di un cantante-attore che piaceva a mia madre. Tra qualche ora lascerò il mio stato monacale. Da domani inizierò a lavorare nel ristorante come aiuto cuoco: pulirò pesci, patate, ananas. E' passato un anno da quando ho messo la tunica. In questo paese ogni uomo, anche sposato, può fare un anno di monacato; poi può decidere se proseguire o concludere l'esperienza. Io ho capito di non essere fatto per il monachesimo. E' troppo monotono e la monotonia può essere sicurezza ma può anche essere melma che imputridisce l'anima-

Thongchai accarezza il cranio. Continua:

-A vent'anni ero campione nazionale di thai-boxe. Avevo incontrato un monaco che faceva l'allenatore e che mi avviò a questo sport violento ma elegante. Con le braccia lunghe avevo un jab che teneva lontano gli avversari e con i gomiti affilati piazzavo delle rasoiate in faccia agli altri pugili. Ero rapidissimo di gambe e il kao loi, il calcio volante, era la mia specialità. 25 dei miei 30 incontri li ho vinti per ko. Quando entravo nei boxing stadium il pubblico mi accoglieva con un boato assordante-

Thongchai si liscia la tunica sul petto. Riprende:

-Come monaco ero di stanza al Wat Doi Suthep, un tempio su una collina nei pressi di Chang Mai. Per raggiungerlo bisogna sciropparsi una scalinata di 304 gradini, abbellita però dai naga, i corrimano che riproducono, sinuosi e verdi, il corpo di serpenti. I naga iniziano con terrificanti teste di drago. Per i più pigri c'è anche una cremagliera che sale al tempio-

Thongchai si sfrega l'omero nudo. Racconta ancora:

-Il Wat Doi Suthep è bellissimo. Si passa sotto una una porta istoriata e si entra nel cortile, tante aiuole di rose, orchidee e bonsai di tamarindo. In mezzo sta il chedi, il tempio più importante. E' un imbuto d'oro rovesciato, con una punta sottile di 24 metri. Dentro ci sono 15 statue di Buddha e ad ogni ora del giorno qualche monaco o qualche pellegrino è inginocchiato a recitare i mantra. Davanti al tempio, sotto parasole dorati, si possono incontrare i bonzi anziani, seduti nella posizione del loto: puoi esporre i tuoi problemi e loro ti daranno un consiglio-

Thongchai, passato a levigare il braccio, aggiunge:

-Me ne sono andato dal tempio in autostop. Un gran pezzo di strada l'ho fatto sul cassone di un pick up dove erano legate delle scimmie ammaestrate che venivano condotte a raccogliere i cocchi dagli alberi-

 

Radea, il lady boy, prende la mano di Mahia, la ragazza giraffa, e quella di Thongchai, il monaco con vocazione in scadenza. Propone:

-Il nostro primo giorno di riposo ce ne andiamo alle isole, Korok oppure Phi Phi. Là il mare è turchese e smeraldo, la sabbia d'oro, la luce violenta. Ce ne stiamo da mattina a sera in acqua, a mangiare e bere in qualche bar scassato, a parlare-

-Per fare il bagno dovrò togliermi gli anelli, altrimenti affogo- dice Mahia.

-Possiamo stare completamente nudi- delibera Radea.

-Adesso non esageriamo- si oppone Thongchai.

Di fronte le onde s'indovinano per il mascara bianco che orla il nero diffuso. Le stelle tremolano come fossero emozionate. Il profumo del fiore del frangipane si spande dolce. E a Patong, tra puttanieri e drogati di sesso, può anche nascere un'amicizia.